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Un anno maledetto

GIORGIO TERRUZZI

Doveva essere una stagionr, un anno, un mondiale tutto suo. Con un unico rischio: la solitudine. Solo davanti, irraggiungibile, lontano. Senza più Prost, con un rivale ancora acerbo, Schumacher, al volante di una vettura di promesse mancate, la Benetton. Solo e vincente dentro la Williams-Renault, con un compagno di squadra troppo debole, troppo timido, per uno come lui. Era stato il compimento di un disegno e di un sogno forte: conquistare la monoposto migliore spinta dal motore più potente. Una monoposto strappata al nemico di sempre. E poi un conto da pareggiare a quota 4 titoli, un record da eguagliare a quota 5. Chi aveva imparato a conoscere Ayrton Senna aveva capito soprattutto che era fatto di una pasta formidabile. Qualcosa capace di tenere in piedi nel tempo una ferocia agonistica da esordiente, un talento fuori quotazione, una volontà cieca, addirittura spaventosa. Ecco. Era abbronzato, persino un pò paffuto all'Estoril lo scorso gennaio. Aveva sulla faccia il segno di un trionfo. Era lì, perdio, era pronto per cominciare a vincere di nuovo, a fare ciò che per lui era fondamentale. Vincere, nint'altro, senza soluzione di continuità. E adesso siamo qui a misurare un destino che pare isopportabile, un brandello di storia recente e nata, nonostante le apparenze, senza fortuna. Si era lamentato subito, Ayrton. "Una macchina difficile". Ma era sempre così, un pò vittimista, sempre pieno di pretese. Invece, aveva ragione. Lo si è capito dopo, più tardi. I primi avvisi proprio qui, durante i testi di marzo, con la Benetton subito più veloce. Poi venne la pole in Brasile ed era pieno il mondo di gente pronta a scommettere che di una galoppata felice si sarebbe trattato.

Macchè, testacoda, fuori. Mentre inseguiva Schumacher che andava a vincere, che rovinava una festa brasiliana preparatissima. E tutti a dire "bene questa stagione è salva". Vero. Non solo un avversario, una monoposto all'altezza, ma un avversario già in fuga. Un buon momento, abbiamo detto e scritto, tutti presi a cercare lo spettacolo, le emozioni. Alla sicurezza delle corse, con quell'avvio di stagione così frizzante, non badava proprio nessuno.

Rivincita, Giappone. Un'altra pole, normale, ma anche un'altra uscita di scena. Alla prima curva: tamponato da Hakkinen. E Schumacher a quota 20. 20 a zero. La discesa era già finita, non era mai esistita. Ma per fortuna Imola. Una pista che a Senna piaceva, un posto buono per vincere per la quarta volta. Pole, di nuovo, figurarsi. Ma in un caldo in un vento già carico di robaccia, di lutto. Era a Imola, era pronto come sempre, non era certamente soddisfatto. Liti, attriti dentro la Williams. Una squadra abituata a vincere, proprio come lui; una squadra abituata a Mansell e a Prost, non proprio a lui. Berdnard Dudot, a cena, venerdì sera aveva offerto una bella spiegazione: "Non si tratta di problemi gravi. Ma Prost è un pilota che segnala una indicazione e poi lascia fare; Senna segnala e sta lì a guardare il tecnico e i meccanici sino a quando hanno fatto ciò che voleva. Sono tutti un pò sotto stress per questo, ma Ayrton è così."

Gli era toccato di entrare due volte nel posto peggiore dell'autodromo: l'ambulatorio. Per vedere se Barrichello funzionava ancora; per sapere se Ratzemberger era morto. Poi basta, zitto. Gli avevamo parlato giovedì e poi venerdì dopo le prove "E'dura, ma è così. Questa è la nostra realtà." Eppure domenica mattina, chiuso in una stanza con Berger, Schumacher e Alboreto aveva idee bellicose, voleva scrivere una lettera e poi fare altro, cambiare qualcosa in fretta, rifondare di fatto quella commissione piloti che non esiste più.

Non ha fatto in tempo, non ha fatto in tempo a vincere con la vettura che più ha desiderato, non ha fatto in tempo a trovare un tesoro che pareva certo, lì a un metro. Era impegnato, impegnatissimo. Era tutto preso, molto coinvolto da un'attività economica impressionante. Ma era anche quello di sempre, un pilota formidabile, espresso da un uomo disturbato, carico di una tensione che non fa bene alla vita ma che rende unici, indimenticabili i campioni. Ecco. Senna è morto con un umore noto, senza una soddisfazione di troppo. Ma questa è una consolazione che non cava nemmeno un piccolo, un piccolissimo sorriso.

Autosprint, anno XXXIV, numero 18 3-9 maggio 1994.

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tra i grandi corridori, senna sicuramente riveste un ruolo quasi mitologico.

Ha vinto tanto in un periodo ultracompetitivo. Ma non ha vinto troppo, è morto all'apice ed è sempre stato coraggioso/incosciente. La nemesi di Lauda, freddo e calcolatore. Non a caso, la sintesi dei due Schumacher, ha vinto più di tutti.

Il punto vero è che Senna è stato sì un asso, ma soprattutto un grande purista della velocità. Uno che ha fatto una marea di pole. Alla lunga però non era un tattico. Non sapeva quando alzare il pedale, e questo, in alcuni casi è costato gare.

Sotto la pioggia credo nessuno fosse più abile di lui, proprio perchè il controllo che aveva era innato.

Allo stesso tempo, come Senna, ce ne sono stati altri, che magari non sono morti correndo, che magari non sono stati personaggi quanto lui, non hanno avuto rivali all'altezza, non erano brasiliani o facce da cazzo.

Clark era più veloce di senna, Villeneuve più spericolato, Schumacher più vincente, Alonso più tenace.

Senna però è stato il primo pilota "moderno", e se lo metti di fianco a Prost, sembra ci siano 20 anni di mezzo.

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  • 5 months later...

Wimbledon

Il prete che doveva impartire l’estrema unzione a mia madre suonò il campanello di casa nell’istante in cui Roddick sbagliò la famosa volèe alta. L’americano non se lo dimenticherà mai, quel punto che gli ha prosciugato speranza e carriera. Neppure io, seppure per ragioni diverse. Quell’edizione di Wimbledon la ricordo partita per partita, ogni turno era come la sabbia nella clessidra, ormai il tempo stava per finire. Avevamo deciso, io e mio padre, di portare mamma a casa per i suoi ultimi giorni, nel suo e nel nostro Monferrato. A ogni partita associo una sensazione, un momento. Non vidi alcuna partita degli ottavi di finale, perché quel lunedì ero tornato a Milano a ritirare il vestito per il funerale. Da quel giorno, non rimaneva molto da fare, solo aspettare. I quarti, una partita a schiaffoni tra Federer e Karlovic, una battaglia tra Murray e Hewitt. Le semifinali, con Roddick che gioca la partita perfetta contro lo scozzese, persino intelligente, e io pensai che avere un coach può essere importante.

Eravamo sul divano bianco, io e papà. Non parlavamo. Non c’era molto da dire. Ogni tanto veniva il medico, la morfina meglio smetterla, ormai non fa più nulla, cose così. Solo da aspettare. Chi legge questa rivista forse lo sa, mi è già capitato di scriverne. Ho un padre fuori di testa con il tennis, che mi ha passato l’ossessione. Negli ultimi 37-38 anni, e io ne ho 44, abbiamo sempre cercato di trascorrere insieme la domenica della finale di Wimbledon. E’ un rito non dichiarato, e se non siamo insieme per accidenti della vita come il lavoro o la famiglia, passiamo ore al telefono a raccontarci impressioni, commenti, vabbè inutile che spiego, capite benissimo di cosa sto parlando. Ogni tanto, a turno, ci alzavamo per entrare nella stanza con la finestra affacciata sulle nostre colline. C’era molto sole, in quei giorni. La stanza era sempre inondata di luce. Non ha mai piovuto. Guardavamo se mia madre c’era ancora. Poi tornavamo a Wimbledon.

Papà è un federasta, direbbe qualcuno. Ama Roger alla follia, lo considera l’ultimo portatore sano di gesti bianchi, l’ultimo classico. Gli vuole bene. E’ tifoso, lui. Io appartengo alla parrocchia svedese, colpa di Borg a Wimbledon, naturalmente, e una volta che Söderling ha perso per me va bene tutto. Non proprio tutto, ad essere sinceri, ma diventa una liberazione, posso guardare e apprezzare senza il velo della passione. Torno ad essere laico. Guardavamo, anche le repliche. E aspettavamo. Non c’era altro da fare.

Chiedo scusa. Non volevo e non voglio intristire nessuno con le mie faccende personali. Temo che a questo punto che nessuno mi creda, ma io detesto l’autoreferenzialità. Già che ci sono, chiedo scusa per il ritardo, perché se questo numero di Tennis magazine ritarda nelle edicole, la colpa è mia. Con Lorenzo, il direttore, avevamo concordato un articolo. Qualcosa sul fascino diverso di Wimbledon, declinato sui ricordi di uno come me, che ne subisce il fascino, i Doherty Gates, il segnapunti con la scritta Rolex nell’angolo sinistro, il cerimoniale, il tentativo (fallito) di preservare un tennis monocromatico e non sgargiante, persino il saluto ai reali. Da uno che non c’è mai stato, purtroppo, e che sogna di mettere piede oltre quei cancelli come un bambino può sognare i regali di Natale. E sublima questo desiderio conservando la memoria di ogni fatidica prima domenica di luglio.

Bjorn Borg a Wimbledon 1976

Qualcosa del tipo: quando Bjorn Borg vinse il suo primo titolo contro Ilie Nastase avevo 9 anni, ero in un residence di Numana, mamma e papà mi vegliavano mentre deliravo con un febbrone a quaranta. Conservo immagini di volti oblunghi e sagome distorte come agli specchi del luna park, ma non credo fosse colpa della televisione in bianco e nero, semmai del pesce avariato che mi procurava temperature corporee tropicali con annesse visioni fantozziane. E andare avanti così, in una sorta di amarcord dove il desiderio di vederlo dal vivo e capirlo, quel posto cresce di continuo e non si ferma certo con l’adolescenza e infine l’età ormai troppo adulta.

I cinque Borg e l’unica finale persa dall’orso sono ricordi di colonie estive, le ultime con i genitori, poi il favoloso 1984 di SuperMac che si sovrappone alla prima volta in vacanza senza i genitori, un campeggio in Liguria con gli amici, e ricordo ancora la faccia stranita del contadino sulle alture di Moneglia quando uno spilungone dall’aria stranita, cioè io, bussò alla sua porta per chiedergli se gentilmente accoglieva lo sconosciuto a casa sua, gli prestava la televisione per un paio d’ore. Non mi prese a schioppettate, tutt’altro. Mi squadrò a lungo e in silenzio, credo soppesasse l’eventualità che io fossi un pericoloso drogato di città. “Per favore”, gli dissi. “Le garantisco che dura poco”. Andavo sul sicuro, McEnroe contro Chris Lewis, non c’era bisogno di essere Rino Tommasi per prevedere che all’ora della merenda sarei stato di ritorno al camping Daniela. Mi fece entrare. Accese la televisione e mi chiuse nella stanza.

Avevo preso anche appunti, per questo articolo. La diversità di Wimbledon andrebbe comunque spiegata. Il suo fascino ha sicuramente a che fare con la diversità degli inglesi, quel loro tenace ostentare la fede incrollabile nell’eternità. Un paio di dotte citazioni, Martin Amis, che fa sempre la sua bella impressione, e soprattutto Gianni Clerici. Poi ho lasciato stare. A me Wimbledon fa impressione, incute timore e desiderio. La cattedrale, tutto quel che dovrebbe essere il tennis, uno strano imposto tra stile, geometria, forza e bellezza. Se in quel sobborgo verde il tempo si è fermato, a me è successo tante volte di misurare il mio tempo sul suo fuso orario. E’ quasi un riflesso condizionato, neppure una questione di memoria. Riesco a ripescare tanti momenti del Roland Garros, tante sere d’inverno a bere caffè per non cedere al sonno australiano, a Flushing Meadows ci sono pure entrato una volta. Wimbledon è un’altra storia, e da queste spiegazioni arruffate appare chiaro che io non sono Martin Amis o Gianni Clerici. Dai “500 anni di tennis” del maestro rileggo spesso le agonie londinesi del barone Von Cramm, o altri drammi sportivi che solo sul centrale, oppure sul campo numero 2, la tomba dei campioni dove una volta anche Peter Doohan batté Boris Becker, appaiono compiuti. A me sembra che Wimbledon abbia – la dico grossa – una capacità mitopoietica tutta sua, che non appartiene a nessun altro Slam.

Io mi limito solo a raccontare una passione, la mia. Lo faccio qui, nella consapevolezza-speranza che si tratti di una deviazione mentale condivisa, credo insomma che chi legge questa rivista sia anch’esso pazzo per il tennis, e possa capire. Ho fatto di tutto per non perdere mai l’appuntamento con la finale. Al lavoro o in vacanza: di tutto. Nel 1999 vidi un Sampras etereo prendere a pallate Andre Agassi da un bar di Tirana munito di provvidenziale parabola. Erano i giorni della guerra in Kosovo, i giornalisti italiani facevano avanti e indietro dal confine e facevano tutti base in un bell’hotel di una catena austriaca, purtroppo sprovvisto di televisione satellitare. Chiesi a quelli della Cnn, tecnologicamente due giri avanti agli altri, se per caso, nelle loro stanze adibite a studio televisivo e super accessoriate avessero un monitor libero. Il producer della celebre Christiane Amanpour mi mandò cortesemente a quel paese. L’unica soluzione era un bar malfamato nella zona universitaria – 12 anni fa Tirana non era come oggi, quasi europea –, popolato da trafficanti di auto rubate, dove lo studente che mi ci aveva accompagnato mostrava evidenti segni di nervosismo. Resistette un set e mezzo, poi mi obbligò alla ritirata.

La finale del lunedì, quella tra Goran Ivanisevic e Patrick Rafter, la vidi dalla redazione del mio giornale, obbligando ad assistere colleghi totalmente ignari del dramma che si andava consumando, una sola partita per due giocatori all’ultima chiamata, che non avevano mai vinto prima e sapevano che mai avrebbero potuto farlo dopo. Sul 6-6 del quinto set un malcapitato praticante osò cambiare canale per pochi minuti onde sintonizzarsi sul Tg delle 18, al fine di compiacere un caporedattore insensibile e inspiegabilmente preoccupato di chiudere le pagine e andarsene a casa. Gli fu risparmiata la vita, ma solo quella. La più brutta finale della storia del tennis – Hewitt-Nalbandian, naturalmente -, non meriterebbe alcuna menzione, non fosse per il fatto che alle 15 di quella domenica, era il 7 luglio 2002, mi trovavo a casa di Annamaria Franzoni in quel di Monteacuto Vallese, appennino tosco-emiliano, mendicando l’ennesima intervista. Non ebbi cuore di chiedere se in quella enorme casa patronale avessero un televisore. Non c’era, e comunque avevano altro a cui pensare. Tornai in albergo a Bologna giusto per vedere l’ultimo set e così rimpiangere la compagnia che avevo appena lasciato.

Alla fine ci sono anche andato, a Wimbledon, concetto ben diverso dall’entrarci. Il torneo del 2005 era finito da cinque giorni con la solita vittoria di Federer su Roddick quando un gruppo di terroristi islamici ebbe la brillante idea di massacrare una cinquantina di pendolari londinesi che viaggiavano in metrò e sull’autobus. Dopo la prima settimana, quando le idee cominciavano a scarseggiare, anche perché gli inglesi avevano reagito alla tragedia come fanno di solito, business as usual, un caporedattore mi chiese di fare un giro nei luoghi simbolo di Londra e dintorni, parlando con la gente proprio per farmi raccontare questo concetto tutto inglese della resilienza. “Trafalgar Square naturalmente, la Royal Albert Hall, e poi…” Wimbledon, dissi io. Certo, anche Wimbledon, fu la risposta. Mi ci precipitai. Mi avevano consigliato di provare dall’ingresso riservato ai soci del club. Non c’era nessuno. Solo un custode. Pioveva a dirotto. Tentai un colloquio, e intanto mi issavo sulle punte per vedere oltre un cancello sbarrato, per cogliere un’immagine, uno scorcio di campo verde che mi consentisse il fatidico “c’ero anch’io”, anche se fuori stagione. Vidi solo due auto parcheggiate. “E’ tutto chiuso, e poi ci vuole l’autorizzazione del club per entrare” disse il custode. Poi si rimise a leggere News of the world, facendomi intendere che la conversazione era finita. A Wimbledon ci sono stato anch’io, comunque. E so tutto del gabbiotto del custode.

Nel 2008, mentre Federer vinceva il tie-break del quarto set con un paio di colpi da leggenda (solo quelli, sul resto della partita ho ancora qualche dubbio, come al cinema con i capolavori annunciati), sul lembo estremo della Sardegna tirava un vento gelido di maestrale. In cima a capo Falcone c’è un bar con megaschermo all’aperto ed è lì che mi raggiunse la mia famiglia. Imposi a moglie e prole di aspettare la fine dell’incontro, nonostante le tenebre che avanzavano e l’aria sempre più gelida. Sapete già che vinse Nadal, come sempre con Roger, e potete intuire che i miei figli rischiarono l’ipotermia. Quella fu anche l’ultima vacanza con mia madre. Nel 1981, McEnroe-Borg, passò un’ora intera a reggere l’antenna del Brionvega seppiato che non voleva saperne di funzionare bene nel nostro monolocale di Stintino. C’è sempre stata, durante quelle finali che mi hanno consegnato all’amore per il tennis, anche quando non c’era bisogno di reggere un’antenna. Non le importava nulla, dei passanti di rovescio di Borg, delle occasioni perdute da Gerulaitis, dei furori di Jimbo. Le importava di noi, era per noi che sopportava quelle interminabili sessioni davanti alla tele, mentre il resto del mondo era in spiaggia. Per noi.

Adesso che il prete se n’è andato, che gli abbiamo offerto il caffè, programmato quel che sarà, quali letture, chi parlerà all’altare, ci sediamo nuovamente sul divano. Il prete ha portato l’ufficialità di quel che già sapevamo. Non parliamo. Anche il volume della televisione è basso. Siamo al quarto set, Roddick lo vince di cuore. Federer fatica e gioca male, ma si capisce che vincerà lui, perché non sempre, nella vita e nello sport, le cose vanno come sarebbe giusto. Non riesco a dire una parola, neppure mio padre. Guardiamo e basta. Io guardo e penso a lui, a quest’uomo che sta per rimanere solo. Mi sorprendo a tifare per Roger, cosa che non ho mai fatto. Vorrei che vincesse, per mio padre. Ormai è almeno un’ora che non sento la sua voce. Sul 13-13 si schiarisce la gola. “Certo che Federer quando è in difficoltà diventa gnucco, si fida solo di dritto e servizio”. Ha ragione. Ci guardiamo. In quel momento capisco che ce la farà, andrà avanti comunque. Wimbledon non è un torneo come gli altri. Per nessuno. Neppure per me.

(Marco Imarisio)

Guardate qui per altre perle. Vorrei postare qualcosa di Federico Ferrero, ora come ora il miglior giornalista che si occupi di tennis (Clerici sta scrivendo sempre meno...ha 83-84 anni ormai)in Italia. Beccatevele qui.

http://www.tennismagazineitalia.it/wildcard/

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  • 2 months later...
  • 1 year later...

Sul 6-6 del quinto set un malcapitato praticante osò cambiare canale per pochi minuti onde sintonizzarsi sul Tg delle 18, al fine di compiacere un caporedattore insensibile e inspiegabilmente preoccupato di chiudere le pagine e andarsene a casa. Gli fu risparmiata la vita, ma solo quella.

:laugh: :laugh: :laugh:

Il Vangelo di David Foster Wallace è qui

http://www.nytimes.com/2006/08/20/sports/playmagazine/20federer.html?pagewanted=all&_r=0

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