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The King of Limbs, Shakespeare e i boschi perduti


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L'avevo mandato a Max per pubblicarlo su idioteque ma il webmaster è apparentemente temporaneamente scomparso, quindi --

Credo di aver percepito il significato – quello che io credo sia il significato – di The King of Limbs qualche settimana dopo l'uscita del disco, intorno a fine febbraio. Ho aspettato tutto questi mesi a scrivere le mie impressioni perché, sebbene fossi abbastanza “certo” delle sensazioni, ero altrettanto sicuro che sarebbero state annientate da un'eventuale “completamento” del disco da parte dei Radiohead. Dico completamento perché al momento dell'uscita molti fan-appassionati-fedeli dei Radiohead consideravano The King of Limbs – o meglio, le prime otto canzoni del disco – la prima parte di un qualcosa che sarebbe stato terminato da una seconda/terza/quarta pubblicazione in arrivo nei mesi a venire. Avendo trovato coerente fin dall'inizio il progetto TKOL, io non ero iscritto al partito; nonostante questo i Radiohead sono noti per sorprendere, ed effettivamente gli indizi su una potenziale seconda parte non erano del tutto insensati, quindi decisi di aspettare. L'album è ormai uscito sia in forma fisica che in edizione limitata, e questa “materializzazione” del disco da otto tracce per quanto mi riguarda ne sancisce l'esistenza, indipendentemente da futuri seguiti o successori più o meno diretti.

Prima dell'effettiva divulgazione della musica, i Radiohead hanno rilasciato, verso metà febbraio, la copertina del disco. Le prime battute, illazioni e previsioni ruotavano tutte attorno a un ipotetico concept album ambientalista, vista la preminenza di alberi ed elementi naturali, senza tralasciare la passione (o fissazione, scegliete voi) di Thom Yorke per l'argomento; nonostante fosse la direzione artistica più quotata, dubito che qualche fan ci credesse sul serio, sia perché l'argomento era troppo scontato per gli standard del gruppo, sia perché è una cosa che riguarda più Thom che i Radiohead, sia perché è una tematica filtrata in (quasi) tutti gli ultimi album del gruppo senza che assurgesse mai a un ruolo egemonizzante.

Per quanto riguarda la musica, le aspettative non erano certo basse (parlo delle aspettative dei fan, perché la critica-critica [non Dore Ciak Gulp insomma] ha iniziato a snobbare i Radiohead e a profetizzarne la fine e a sperare di poterne parlare male dal “It's up to you” di In Rainbows [questa è una mia impressione]), e in generale c'era un'atmosfera da “o adesso o mai più”, ingigantita dall'anomalo silenzio tombale che ha accompagnato le registrazioni – e anche la pubblicazione, ora lo sappiamo – del disco. In molti si attendevano un'opera magniloquente, quantomeno nelle intenzioni.

Se c'è una cosa certa di questo nuovo disco dei Radiohead, condivisa praticamente da tutti, ammiratori e detrattori, è proprio la totale assenza di grandeur: niente magniloquenza, quindi. Anzi: se i dischi dei Radiohead – almeno da Ok Computer in poi – sono considerabili come romanzi (più o meno belli e lunghi, chiaramente) questo è una sorta di lungo racconto. The King of Limbs non solo non è diventata l'opera magna del gruppo, ma non lo è mai stata nemmeno nelle intenzioni: è una creazione concisa, precisa, limitata nelle ambizioni, una cosa davvero strana per una qualsiasi rock band, figuriamoci per il gruppo che più di ogni altro, adesso, avrebbe il diritto e le possibilità (e secondo alcuni il dovere) di concepire il The Wall del nuovo millennio (con questo non intendo che The Wall sia qualcosa di incredibilmente bello, voglio semplicemente dire che nessuna rock band negli ultimi venti anni ha realizzato un progetto ambizioso come quello, e nemmeno ci ha provato [e in fondo è questo quello che dà un po' fastidio] e in molti si aspetterebbero, visto lo status dei Radiohead, che proprio loro si prendessero l'incarico e abbandonassero del tutto quell'aura naif che, più o meno fortemente, li ha sempre contraddistinti).

Nonostante ci sia la strana tendenza, nel mondo del rock, ad associare concept album e grandeur – a dire la verità non mi viene in mente nemmeno un esempio che vada contro questo binomio, quindi il pregiudizio non è infondato sebbene illogico a livello astratto – in questo caso le due cose vanno disgiunte. The King of Limbs non è un doppio cd – anzi, ha solo otto tracce – ma di sicuro è un concept album, anzi, probabilmente è il disco più concettualmente coeso che i cinque oxfordiani abbiano mai fatto. In passato i Radiohead hanno dato vita a dei progetti tematicamente e artisticamente coerenti, ma mai al livello di The King of Limbs (questo non significa che sia un disco migliore dei precedenti o contenga musica più raffinata): Ok Computer ha un'atmosfera pesante che travalica il singolo pezzo, è un viaggio nell'alienazione materiale e psichica causata dal connubio metropoli-tecnologia di fine anni '90, ma i testi non sono legati l'un l'altro, così come le musiche; stessa cosa per KidA: angoscia esistenziale, un incredibile percorso nel cervello e nell'anima umana guardando in faccia disperazione, ingiustizia e morte (a dire la verità ancora mi chiedo come possa aver avuto tutto questo successo) in cerca di speranza (non di salvezza: prima di cercare la salvezza si cerca la speranza di trovarla), ma anche nel caso di KidA la dimensione concept è data dall'atmosfera coesa, non dai testi o dalla narrazione o dalla ripetizione di cellule musicali in tracce diverse; In Rainbows, altro disco ben strutturato e ordinato, al contrario è tenuto unito, caso unico nei Radiohead, più dalle parole di Thom Yorke che dalla musica o dal mood dell'abum – addirittura si capisce che “parla” dell'evolversi di una storia d'amore, dell'inizio, del tradimento e della fine, più dai testi che dalla musica o dagli artwork, che con la loro astrattezza vanno in direzione opposta rispetto alla precisione descrittiva delle canzoni.

The King of Limbs è a tutti gli effetti un concept album, e questa sua “essenza” si riflette in ogni aspetto nel disco: nella macro e nella microstruttura dei testi e della musica, nella gestione dell'atmosfera e della narrazione, e anche negli artwork di accompagnamento di Donwood, mai così “allineati” alle creazioni dei Radiohead. Come detto prima, è uno dei pochi – dico dei pochi per non dire l'unico, visto che sarebbe sicuramente un'idiozia ignorante, sebbene sincera – concept album concisi della storia della musica rock – 38 minuti (e otto canzoni) sono pochi in generale, se andassimo a controllare il minutaggio medio dei concept immagino saremmo almeno dieci minuti (e 3-4 canzoni) sopra.

The King of Limbs non è un concept album sull'ambientalismo come qualcuno aveva pronosticato, sebbene l'ambientalismo c'entri eccome: l'operazione compiuta da Thom Yorke – stavolta credo che la progettazione sia ancora più “personale” del solito, per le competenze letterarie richieste e l'argomento trattato – è ben più complessa. L'ambientalismo e il global warming sono state le cause che lo hanno portato a riflettere sui boschi, e sulla loro scomparsa, e su quello che hanno significato in passato per l'uomo, e quindi hanno gettato le basi per l'argomento di TKOL. Argomento che prima di essere trattato necessita un'ulteriore, più breve possibile, premessa.

I boschi sono sempre stati presenti nelle composizioni artistiche dell'uomo, così come gli animali che li popolano, e il legame di questi ambienti selvaggi e naturali con magia e creature incantate è più vecchia di quanto si possa ragionevolmente datare. Tuttavia è solo con l'arrivo del periodo barocco che i boschi hanno iniziato a essere visti come interessa a noi (in ottica Radiohead, intendo), e cioè in opposizione alla vita cittadina. Tagliando corto e passando senza indugi dal piano fisico a quello metafisico, si può dire che due associazioni tipiche del periodo erano città-ragione e bosco-irrazionalità; le foreste sono sempre state – come detto prima – fonte di mistero, ma è solo con l'affermarsi della vita cittadina e delle sue sicurezze che l'uomo ha iniziato a vivere “separato” dai boschi, e a concepirli come “estranei” e diversi, ad attribuirgli una connotazione selvaggia, antitetica all'ordine e alla protezione garantiti dai villaggi.

Gli artisti dell'epoca elaborarono e sfruttarono questi sentimenti nelle loro opere: i boschi divennero il luogo in cui l'uomo si ricongiungeva alla natura, ma soprattutto dove affrontava la propria bestialità – oggi diremmo (più giustamente) il proprio inconscio – e si relazionava con sé stesso e col suo vero io. L'opera più rappresentativa a riguardo è sicuramente Sogno di una notte di mezza estate di Shakespare, che per non prolungare ulteriormente l'articolo evito di affrontare, ma che Thom Yorke – come ogni inglese istruito – sicuramente conosce. Aggiungo un semplice dettaglio: era sensazione comune considerare il bosco come “estraneo” e portatore di misteri, era idea comune per gli artisti associare il bosco alla bestialità e all'istinto, era idea (quasi) esclusivamente shakespeariana associare il bosco (e la bestialità e l'istinto) anche al sogno e all'inconscio (sebbene non ne avesse la concezione che ne abbiamo noi oggi).

Questo argomento è passato un po' sotto silenzio nel successivo periodo illuminista – per ovvie ragioni – per poi tornare di grande attualità e sublimare al suo massimo splendore in epoca romantica (metà 1800 per farla breve), soprattutto nei balletti, pieni di boschi, misteri, creature fantastiche e protagonisti che affrontano le foreste (piano narrativo) per risolvere i problemi con sé stessi (piano figurato). Se nel 1600 e – soprattutto – nel 1800 era fortissima l'opposizione città-bosco, non si può dire la stessa cosa per il '900. Anche qui sintetizzando al massimo le cose, il bosco prima è radicalmente scomparso dalla vita degli abitanti delle metropoli, poi è stato coercizzato dalla “civiltà”, che ha tentato di farlo suo e di dominarlo, di farlo sottostare all'ordine umano. Allo stesso tempo, non essendo più fortemente presente nelle vite delle persone, ha smesso anche di essere il simbolo dell'interiorità umana, sempre più associata alla solitudine e dall'anonimato generato (a fine secolo) dalle masse e dall'industrializzazione selvaggia: in un certo senso, la tecnologia per Thom Yorke – epoca Ok Computer – ha parzialmente ricoperto il ruolo “estraniante” che i boschi avevano in età barocca.

Ed eccoci arrivati a TKOL, perché è esattamente questo l'argomento che tratta il disco dei Radiohead: non la semplice perdita/scomparsa dei boschi, ma la perdita/scomparsa dei boschi come elemento misterioso per l'uomo, come luogo per ritrovare sé stessi e confrontarsi con le proprie origini, la perdita della natura come elemento fondante – dal punto di vista psichico, soprattutto – del proprio io, la perdita di un luogo che bilanci l'orrenda sensazione del “abbiamo-tutto-sotto-controllo” tipica dei luna park, e delle città (delle metropoli, soprattutto): è un tentativo di ricongiungersi con la natura, e con le proprie origini.

Yorke riprende tutti i tratti caratteristici del genere (strettamente legato al fiabesco, soprattutto nel periodo romantico): il disco narra di un lungo sogno, ci sono dei personaggi fantastici, un mandante, un nemico, una ricompensa. A rendere il tutto originale e a donare il giusto distacco temporale (dalle opere barocche e romantiche) però è il fatto che, nella sua missione personale all'interno del bosco e del sogno, ciò che è perso, ciò che va ritrovato è proprio la dimensione “autentica” del bosco, il legame del protagonista con i suoi antenati. Se da un lato i testi delle canzoni narrano una vicenda simile a quelle dei balletti ottocenteschi, è soprattutto la musica a conferire un'ulteriore strato (quasi meta) narrativo: all'inizio del disco non solo si tenta di ritrovare sé stessi, ma anche di capire dove ci si trova: il luogo – il bosco – è del tutto sconosciuto: c'è, è una conoscenza atavica, ma non è concepita coscientemente. E' l'uomo moderno che deve ritrovare sé stesso (come accadeva in passato), nel luogo esatto in cui i suoi antenati cercavano la loro identità, ma, avendo (a differenza del passato) perso il legame col bosco, non deve trovare solamente il proprio io, ma anche capire dove si trova, e perché. Più che di uno strato narrativo parallelo, si tratta di un'ulteriore discesa in profondità: se prima l'uomo, una volta perso sé stesso, sapeva dove andare per provare a ritrovarsi, adesso, per quanto assurdo possa sembrare, si è perso talmente tanto da non sapere nemmeno dove cercarsi. Non si tratta più di capire dove porta il sentiero immerso tra gli alberi, si tratta di capire dove porta il sentiero tra gli alberi mentre si tenta di ricordare addirittura cosa sono gli alberi.

Il viaggio inizia con Bloom, introduzione e abluzione al tempo stesso: il processo di iniziazione via-acqua è radicato nel cristianesimo e, soprattutto, nella cultura cristiana. L'immaginario boschivo non è evocato direttamente dalle parole, ma è così presente nel resto del disco e negli elementi paratestuali (immagini, illustrazioni, eccetera) che non è difficile immaginare le due ambientazioni a contatto. Il pezzo parte con “open your mouth wide”, e il fatto che poi venga suggerita la presenza di un lago/mare lascia intendere che il protagonista sia appena uscito dall'acqua, e stia respirando a pieni polmoni (“a universal sigh”). Qui i rimandi intertestuali a In Rainbows si sprecano: visto che non è l'argomento dell'articolo soprassediamo, e limitiamoci a dire che il protagonista è sì arrivato in un luogo “nuovo”, ma non è cosciente che si tratti di un inizio: è ancora turbato da avvenimenti precedenti, c'è qualcosa che lo inquieta. Ovviamente è tutto in linea con la dimensione onirica del disco: quando si inizia a sognare non si è coscienti di farlo – non solo: la coscienza, quando arriva, di solito implica la fine stessa del sogno, il risveglio.

Dal punto di vista musicale, è straordinaria l'opposizione tra l'angosciante ritmica serrata e l'espansione vocale di Yorke, che segna il desiderio di calmarsi del protagonista (d'ora in poi “X”); i fiati introducono il sublime elemento naturale, sembrano spalancare gli occhi sul paesaggio esterno mentre, a inizio canzone, X è ancora concentrato su problemi interiori/personali. A fine Bloom, le associazioni sono già fatte: l'elettronica è l'angoscia, lo sconosciuto, il terrore; la voce è l'individuo; gli strumenti “tradizionali” la natura.

Quando inizia Morning Mr Magpie, si percepisce subito un'atmosfera diversa: il ritmo non indica più angoscia, ma avventura: X si è ambientato, e sta cercando qualcosa. Le gazze (magpie) sono uccelli ricorrenti nel folklore britannico, e non hanno una nomea proprio positiva: si dice che uccidano gli altri volatili, e che portino sfortuna, e via dicendo; sopratutto, sono protagonisti di numerose filastrocche, e questa è un'altra caratteristica che lega TKOL all'ambiente fiabesco. Il testo della canzone è un autentico dialogo, una narrazione, sebbene sia poco chiara nei dettagli: il protagonista incontra una gazza – o vede qualcuno che ci sta parlando – e la situazione non è delle migliori, poi succede qualcosa che non doveva proprio succedere (il suono diventa ossessivo e il cantato è un esplicito “no no no no”) e il pezzo di chiude con X incentivato a fare qualcosa (“you know you should, but you don't”). Come anticipato, non è del tutto evidente chi parla con chi e cosa succeda nei particolari, ma è abbastanza lampante come questa canzone rappresenti il momento delle fiabe in cui il protagonista riceve la sua missione; in questo caso non è sicuro di partire e accettare l'incarico (il verso di prima appunto, “you know you should but you don't”), ma è chiaro cosa sia stato rubato, cosa bisogna ritrovare: “And now you stole it, all the magic took my memories” (prima), “And now you stole it, all the magic took my melody” (dopo). Insomma, sono andati perduti ricordi e melodie (e “l'ottocentesco” compito del protagonista è ritrovarli) entrambi rappresentanti dell'atavico elemento naturale. Nascono altre associazioni in accordo con quelle suggerite da Bloom, quindi: elettronica/ritmo serrato/terrore e angoscia da una parte; strumenti tradizionali, melodia, riscoperta della natura/bosco dall'altra.

Little by Little non merita un'analisi molto approfondita. Sebbene da un punto di vista compositivo sia un pezzo stupendo, dalla nostra ottica interpretativa è abbastanza semplice: tutto, dal testo alla musica, dice che il protagonista ha accettato il suo incarico, e si sta avvicinando allo scontro, al nemico che ha rubato “memorie e melodie”. Sta correndo verso il suo destino, insomma.

Stesso discorso per Feral: l'esegesi è semplice e facile: è lo scontro. Del resto il pezzo è totalmente basato sul ritmo ed è completamente elettronico, è il momento in cui si guarda in faccia il male, e lo si combatte.

Lotus Flower è la ricompensa: gettate le basi simboliche dell'opera coi primi due pezzi, è abbastanza semplice seguire lo sviluppo logico del discorso. Il nemico è stato sconfitto da poco, immaginate la carcassa o dei residui (o qualunque cosa essi siano nella vostra testa) lì vicino, mentre davanti a X giunge la ricompensa, il bottino, il tesoro che riceve come premio. Anche in questo caso il testo mostra più lo schema narrativo che i dettagli contenutistici: l'unica cosa chiara mi pare sia il tema vagamente sessuale della canzone, poi che siano fate, sirene o quant'altro poco cambia. Che sia una fase di transizione tra una parte e l'altra del disco, anche in questo caso, è sottolineato in ogni modo possibile: l'elettronica (carcassa del mostro/ladro/moderno-non-naturale-o-umano) è ancora lì con la ritmica, ma la missione è completata: è ritornata in primo piano la melodia, che segna la fine dell'incarico del protagonista sia dal punto di vista narrativo (era stata rubata, come sappiamo dalla seconda canzone) che da quello simbolico (melodia e strumenti tradizionali sono sintomi della presenza boschiva, del naturale). Oltretutto la “solita” sezione aurea cade, non a caso, proprio all'inizio di Lotus Flower.

Codex sancisce la pace dei sensi. In una fiaba tradizionale sarebbe il momento in cui i problemi sono risolti, e il protagonista è di nuovo in armonia con sé stesso: non che qui non sia così, semplicemente si aggiunge il ritrovato equilibrio con l'elemento naturale, finalmente “riconosciuto”: pianoforte e ritmo lento, tornano i fiati Bloom, si contempla il bosco – l'elettronica e le sue angoscie se ne sono andate, sono un lontano ricordo. Codex è un pezzo unico nel repertorio dei Radiohead: sebbene abbiano realizzato molte “ballate” in passato, nessuna si può definire rilassante e serena, aggettivi che invece identificano perfettamente Codex, la sua musica e il suo testo. Anche qui sono presenti elementi naturali (lago) e fantastici (draghi), e viene data continuità all'argomento amoroso introdotto con Lotus Flower (pare che il protagonista stia parlando con una persona, invitandola a buttarsi nel lago [ evidentemente non per suicidarsi, come qualcuno tentava di immaginare memore di Pyramid Song] mentre non c'è nessun altro in circolazione [“no one around”]). Nonostante sia abbastanza evidente lo ribadiamo: anche qui gli oggetti naturali non sono mai spaventosi e/o preoccupanti, il lago è “clear and innocent”.

Give up the Ghost è il tramonto del sogno, in tutti i sensi. Immaginiamo X – ed eventuale accompagnatrice – ancora immersi nel lago di Codex, ma arriva qualcosa a turbare la quiete, ad avvisare il protagonista che la cosa non è reale, e non può durare. Torna in primo piano la sezione ritmica – non più elettronica, ma tribale, quasi si intravedessero gruppi di satiri a scandire il mantra – che, nonostante l'apparente tranquillità, insinua il dubbio che ci possa essere qualcosa-che-non-va. Nonostante X non voglia sentire ragioni (“don't haunt me”) il “coro”, col suo mantra, si fa sempre più forte e convincente.

Tutto questo prelude a Separator, atto finale di The King of Limbs. Il protagonista è ormai cosciente che si è trattato di un sogno: ritorna l'elettronica, che con un serrato loop di sottofondo (come sempre [in questo disco] senza piatti) costruisce la spina dorsale del brano, e con lei l'annuncio di un imminente ritorno alla realtà (e alla modernità e alla tecnologia, quindi). Musicalmente il tutto è gestito in modo esemplare, nonostante la semplicità strutturale della canzone: il testo fiabesco narrato da Thom accompagna la batteria, mentre, da metà brano, una languida chitarra entra in scena, e piano piano copre tutto il resto, segnando il risveglio del protagonista, e con esso la fine del disco. Ancora una volta sono forti gli elementi fantastici (un grosso uccello che porta via [dal bosco?] X, ad esempio), ma soprattutto il testo sottolinea l'importanza del sogno appena fatto, nonostante sia ormai lapalissiana l'essenza onirica dell'avventura appena conclusa: “It’s like I’m falling out of bed from a long and weary dream / Just exactly as I remember / Every word / Every gesture”. X ricorda tutto, non ha dimenticato la ritrovata sintonia col bosco, con la natura. Le ultime parole del disco sono eloquenti, mentre le plumbee chitarre avvolgono il tutto: “Wake me up, wake me up”.

The King of Limbs, nella sua interezza, è tutt'altro che un'opera semplice o tirata via; al contrario, è probabilmente il lavoro più “preciso” e ragionato dei Radiohead. Del resto è il primo album del gruppo che non pone l'argomento autobiografico in primo piano, e che non è principalmente in “prima persona”: qui Thom Yorke racconta – in modo abbastanza descrittivo, come avete notato – una storia, e spesso lo fa in terza persona, osservando da lontano il “suo” X (ma forse sarebbe meglio dire A), e descrivendone le sensazioni, più che con un radioheadiano flusso di coscienza, con un classico, ottocentesco “indiretto libero”.

Mi pare stupido sottolinearlo, ma come avrete capito questo articolo è tutto fuorché una recensione. Sebbene abbia apprezzato l'architettura del disco, non lo ritengo un capolavoro: Give up the Ghost è posizionata perfettamente da un punto di narrativo, ma musicalmente non la digerisco molto, e la digerisco ancora meno posta tra Codex e Separator. Non condivido nemmeno la scelta di lasciar fuori un pezzo come The Butcher con la motivazione che “non c'era verso di incastrarlo nel disco” (per parafrasare Ed O'Brien): al di là dell'elevato valore artistico della composizione, se l'avessero infilata tra Little by Little e Feral non avrebbe affatto stonato, anzi. Si arriva dal “mostro” (Little by Little), lo si osserva (Butcher - tra l'altro un pezzo principalmente elettronico) e lo si combatte (Feral). Questo per chiarire che nel corso dell'articolo non ho dato giudizi di valore, o almeno ho tentato di non farlo, limitandomi ad analizzare e interpretare l'opera.

Opera che, innegabilmente, è un lavoro molto complesso e articolato, e anche abbastanza atipico, e anomalo. Come detto in apertura sono pochissimi i concept album così corti sia come numero di pezzi che come minutaggio, e soprattutto sono ancora meno quelli a tema fiabesco/bucolico. Fare un disco come questo richiede un'elevata cultura musicale – soprattutto in pezzi come Bloom – ma anche una vasta conoscenza letteraria, perché prendere una posizione originale in un contesto talmente cristallizzato come quello trattato non-è-semplice, e in questo i Radiohead hanno sicuramente centrato l'obbiettivo. The King of Limbs è un disco maturo, fatto da artisti maturi per ascoltatori maturi, indipendentemente dai risultati artistici ottenuti: da questo punto di vista, non si può affermare che i Radiohead abbiano fatto i “Peter Pan”: no, hanno quarant'anni e ne sono consapevoli, e la complessità – concettuale, soprattutto – del disco ne è un riflesso.

Certo, quello di TKOL non è un percorso facile da seguire: la circolarità di In Rainbows, con le due metà perfettamente separate, o la discesa-e-risalita di OkComputer e KidA, sono strutture più armoniche, canoniche e, probabilmente, intuitive e affermate, avvolgono maggiormente l'ascoltatore. The King of Limbs accelera al massimo in rettilineo per quattro pezzi, poi inchioda (a Lotus Flower) e fa scendere lo spettatore dalla macchina per le ultime tre canzoni. Una macrostruttura tutt'altro che regolare, insomma.

Per svariate ragioni, checché se ne pensi, resta un'opera davvero unica, che pochi gruppi – oltre ai (e al posto dei) Radiohead – sarebbero stati in grado di realizzare e, soprattutto, concepire. L'ambizione del progetto è forte, ma è tenuta bassa dalle dimensioni contenute del tutto. L'aspetto maggiormente positivo è che gli oxfordiani hanno deciso di proseguire il loro cammino all'insegna della cultura, della ricerca e del ragionamento: è positivo perché, la storia del rock insegna, ottenuti determinati successi e superati problemi e incubi adolescenziali/giovanili, non si può continuare a comporre musica seguendo (solo) impulsi e istinti senza perdere dignità musicale. Ci sono caduti quasi tutti, compresi molti tra i più grandi.

The King of Limbs ci fa ragionevolmente sperare che i Radiohead possano incrementare quel “quasi” - auguriamoci che sia così.

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l'ho letto tutto.

questo tuo pamphlet è la dimostrazione che la musica che ci piace non ci piace perchè parla di sè ma perchè parla di noi.

trovo molto interessante il discorso di "racconto breve" VS "romanzo"... è un'altro dei motivi per cui la gente non ha capito quasta nuova incarnazione dei Radiohead, visto che tutti si aspettavano "il de uol dei redioed"

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Scritto decisamente affascinante e davvero pregnante.

La metafora del bosco ha una lunga storia, e mi piace pensare che Thom, attraverso Shakespeare e il bagaglio culturale squisitamente inglese, conosca anche la mitologia classica e i suoi significati.

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i radiohead non hanno bisogno di un "the wall". chi se lo aspetta non ha capito il livello culturale elevato di questo gruppo. concordo in toto con ciò che è stato scritto nel primo post. devo ammettere che alla vista della copertina immaginavo già una concezione "unica" del disco. I "mostri" della copertina aggiungerei che sono perfettamente integrati con tutto il discorso (li vediamo in maniera mostruosa perchè appunto la modernità ce li ha fatti "disconoscere" e come sempre accade ciò che l'uomo vede come "nuovo" la prima volta facilmente lo vede come "mostruoso" o terrificante). la questione ambientalista ha sempre avuto un "risveglio morale" (se così lo possiamo definire visto che "spirituale" è un termine abbastanza abusato di questi tempi) come base, il risveglio della coscienza di essere qualcosa di + che semplici bestie. la differenza tra l'uomo e l'animale, le origini, i bisogni reali e non pompati da macchine ed ingranaggi (come ci vedo bene Tolkien accostato a sto disco dei radiohead!).

bell'articolo, sono contento di non essere stato l'unico a farmi flash di questo tipo.

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interpretazione brillante, mi ha praticamente costretto a riprendere in mano questo disco.Ma non riesco assolutamente a cogliere questa chiave di lettura, ad un minuto e mezzo da Bloom ne ho già abbastanza.

Questo disco mi è assolutamente impermeabile, nelle mie orecchie suona come un'infinita serie di rantoli, non mi smuove niente.

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interpretazione brillante, mi ha praticamente costretto a riprendere in mano questo disco.Ma non riesco assolutamente a cogliere questa chiave di lettura

Devi solo trovare la tua chiave di lettura.

E' il discorso che facevo prima: devi capire se, dove e come questo album parla di te.

Io per esempio i boschi in questo album non ce li vedo. Sono andato ad ascoltarmelo perfino in montagna, e non mi ha detto nulla. Ho capito che questo è un disco negro, nigga, un disco di Fela Kuti fatto dai Radiohead con in mente Remain In Light, ed appunto un disco di luce non di buio, un disco di spazi aperti non metropolitano. Sicuramente chi soffre di agorafobia non apprezzerà TKOL.

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grazie a chi l'ha letto, intanto :dance:

per klisterkine che citava tolkien, in più di un'occasione ho pensato che questo disco è una versione post-moderna più-acculturata/ragionato meno-istintiva delle filastrocche di Syd Barrett (che amava tolkien, infatti).

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Io ci trovo i boschi dalla prima all'ultima nota ed è stato cosi dall'inizio. aderisco quindi all'idea di bakke anche aall'idea del sogno. Vedo che qualche sensazione simile l'abbiamo avuta.

eccellente disamina per eccellente disco

che forse diventerà qualcosa di più con pazienza.

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  • 1 month later...

Bakke, una domanda...come fai a dire che in Bloom il protagonista esce dall'acqua?

Tutto secondo me porta allo sprofondamento negli abissi oceanici, dalla musica al testo. Dalla fioritura dell'oceano alle meduse e le tartarughe giganti che nuotano vicino al protagonista. Bloom è lo sprofondare in un sogno inquietante, la porta d'accesso al sogno.

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Bakke, una domanda...come fai a dire che in Bloom il protagonista esce dall'acqua?

perché respira forte all'inizio come se fosse appena uscito, e la musica via via si apre, non si chiude (vedi fiati).

Oltre a questo, le tracce successive sono piene di indicazioni su elementi boschivi, mentre non ci sono indizi su ulteriori elementi acquatici (cosa che ci sarebbe se si trattasse di un annegamento: anzi, quando arriva al lago viene specificato, e non ci sono laghi dentro il mare :D).

Detto questo, la cosa importante è la funzione di Bloom, in astratto, ben più delle indicazioni contenustiche. Bloom è l'introduzione al sogno, il momento confuso post-risveglio. Che poi le meduse nuotino tra le gambe del protagonista o vaghino per l'aria - come le vedo io - cambia poco :)

TKOL è volutamente vago e immaginifico, mi pare che si possa ragionare sulla struttura portante, poi le decorazioni sono personali.

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perché respira forte all'inizio come se fosse appena uscito, e la musica via via si apre, non si chiude (vedi fiati).

Oltre a questo, le tracce successive sono piene di indicazioni su elementi boschivi, mentre non ci sono indizi su ulteriori elementi acquatici (cosa che ci sarebbe se si trattasse di un annegamento: anzi, quando arriva al lago viene specificato, e non ci sono laghi dentro il mare :D).

Detto questo, la cosa importante è la funzione di Bloom, in astratto, ben più delle indicazioni contenustiche. Bloom è l'introduzione al sogno, il momento confuso post-risveglio. Che poi le meduse nuotino tra le gambe del protagonista o vaghino per l'aria - come le vedo io - cambia poco :)

TKOL è volutamente vago e immaginifico, mi pare che si possa ragionare sulla struttura portante, poi le decorazioni sono personali.

Sul fatto che Bloom sia l'introduzione al sogno sono d'accordo. E' la porta di ingresso, che si chiude esattamente quando finisce il pezzo. Il giro finale di basso non ti sembra come la chiusura della fase introduttiva al sogno? (l'ultima nota è proprio come un colpo secco di una porta che si chiude, è un colpo netto!) altrimenti sarebbero andati in dissolvenza. L'oceano ovviamente è figurato, è l'immersione nel sogno quella che importa! Il personaggio non entra o esce dall'acqua per annegare/perire: infatti la musica come dici tu non ti fa pensare ad una chiusura, ma ad un nuovo universo/panorama che si apre (come uno scorcio)

In magpie inizia il sogno vero e proprio, la trilogia della dannazione e del peccato che porta a feral (lo scontro bestiale col demonio)!

Fin qua è tutto abbastanza semplice, pur con le dovute differenze interpretative

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  • 1 year later...
  • 7 years later...
On 2/8/2013 at 9:53 AM, dreambrother said:

Secondo me TKOL è ampiamente ispirato dal romanzo di Haruki Murakami "Kafka sulla spiaggia"

Il sogno, la foresta, la pietra dell'entrata... trovo molte analogie

Non a caso il protagonista quindicenne Tamura Kafka ascolta Kid A dei Radiohead... citazioni bidirezionali!

Quindi...

TKOL: Kafka On The Shore

AMSP: The Wind-Up Bird Chronicle (L'uccello che girava le viti del mondo) e, in parte, 1Q84 (in Identikit troviamo il verso "Sweet-faced ones with nothing left inside", che si rifá al "Sweet-faced men with nothing inside" di 1Q84)

Quanto ti piace scopiazzare Murakami, caro Thom :laugh:

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11 hours ago, Valderrama said:

Quindi...

TKOL: Kafka On The Shore

AMSP: The Wind-Up Bird Chronicle (L'uccello che girava le viti del mondo) e, in parte, 1Q84 (in Identikit troviamo il verso "Sweet-faced ones with nothing left inside", che si rifá al "Sweet-faced men with nothing inside" di 1Q84)

Quanto ti piace scopiazzare Murakami, caro Thom :laugh:

Devo leggermi Murakami comunque, prima o poi. 
E rileggermi questo scritto di Bakke. Se leggo Shakespeare mi viene sempre duro...

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