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Recensioni


NickRiviera

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aggiungo qui, per ogni album, la mia recensione preferita, e vi invito, se ce n'è qualcuna che vi ha colpito, a farlo anche voi... B)

Pablo Honey (1993)

A dieci anni di distanza dall'uscita del singolo "Creep", primo successo commerciale dei Radiohead, è difficile parlare di un album come "Pablo Honey". Più dei dieci anni pesano infatti i dieci secoli musicali attraversati dalla band di Oxford, approdata prima sulle sponde di un rock distorto aperto a ballate acustiche incredibili in “The Bends ", poi su quelle della psichedelia decadente di “Ok Computer", infine approdata al dittico "Kid A-Amnesiac” che mescola techno, acustica, jazz. E l'esordio? E l'esordio è "Pablo Honey": gli strumenti sono ancora i classici chitarra, basso, batteria e (ogni tanto) pianoforte, la musica proposta è rock con sfumature pop, figlia al contempo degli U2 di Bono e dei mitici Smiths di Morrissey. Ma sarebbe un errore grave restringere l'intero album ad un semplice elogio delle qualità di "Creep", ballata di prima grandezza, pura, eterea, con un testo meraviglioso ("I want a perfect body, I want a perfect soul"). C'è altro da notare, non fosse altro perché i Radiohead sanno suonare, eccome se lo sanno fare. Spesso le canzoni vivono sulla sottile linea che divide la calma dall'irruenza, come nel brano d'apertura "You", nella rumorosa e travolgente "Anyone can play guitar" o nella semplice "Ripcord". E quando non è così il lato pop prende il sopravvento, tranne in casi sporadici come la caustica "How do you?". Il pop dei Radiohead è comunque di ottima fattura, anche se si notano delle flessioni d'ispirazione in "Thinking About You" e nella già sentita "I Can't". Splendido al contrario l'incedere di "Stop Whispering", "Vegetable", "Prove Yourself" e "Lurgee". Anche se il vero gioiello è nascosto proprio alla fine, a chiusura: "Blow Out" è un vero e proprio piccolo capolavoro, brano rock mascherato da una sottile tela di bossanova, pronto comunque ad esplodere nella distorsione finale, con la voce di Yorke che si eleva al di sopra di tutto. Dimostrazione ineccepibile della classe e dell'intelligenza di Thom Yorke, Jonathan Greenwood, Ed O'Brian, Colin Greenwood e Phil Selway. E poi, è vero, ascoltato a distanza di anni l'album è decisamente offuscato dalle glorie che lo hanno seguito, ma in tutta sincerità, detto tra me e voi: ma quante volte è stato possibile apprezzare così tanto un album d'esordio? (Raffaele Meale)

The Bends (1995)

Se "Pablo Honey" è stato un esordio un po’ acerbo ed indeciso, pur contenendo una canzone ("Creep") che da sola vale l'acquisto dell'album, "The Bends" segna decisamente la svolta artistica del gruppo ed in particolare del suo instabile leader, Thom Yorke. Preceduto da un grande singolo come "Just", canzone irruenta e contemporaneamente evocativa che anticipa molte tematiche dell'album, il secondo lavoro della band impressiona davvero nella sua qualitativa unitarietà sonora e compositiva. Il sound è divenuto molto più personale e riconoscibile, con in primo piano lo straordinario impasto delle tre chitarre di O'Brien, Yorke e Jonny Greenwood. Esempio altissimo di questo nuovo ed invidiabile rigore stilistico è la struggente "Fake plastic trees", a mio avviso il più grande pezzo del pregiato carniere Radiohead. Stimolati anche da precedenti tournée negli Stati Uniti, dove Thom & Co. osservano disgustati le molte anomalie di una società pluriavanzata, i cinque trovano nuovi grandi spunti per le loro feroci critiche verso il Sistema. La sopracitata "Fake plastic trees", l'elegiaca "Nice dream", la stessa title-track sono altrettante denunce contro stili di vita ormai artificiali e sottomessi ai dettami di una qualsiasi moda. Arcano, vario, disperato, incazzato, malinconico, ultraterreno…Questo è "The Bends", per chi ha ancora voglia di ascoltare e pensare. (Max Cavassa)

Ok Computer" (1997)

Quando nel 1997 esce "Ok Computer", i Radiohead sono ancora considerati una band di brit-pop, seppur capace di quelle impennate emozionali rivelate nella vibrante "Creep". La svolta "futurista" segnata da questo album è fondamentale e influenzerà i successivi percorsi "elettronici" della band di Thom Yorke e compagni, spingendola a una simbiosi sempre più fedele con gli umori del suo tempo. Non è solo una identificazione musicale: in un'epoca in cui l'uomo è perso e le sue indecisioni prendono il sopravvento sulla sua volontà, i Radiohead sono tra i pochi in grado di rappresentare in musica tale malessere. "Ok Computer" simboleggia il disagio esistenziale di fine millennio attraverso un linguaggio musicale nuovo e raffinato, pervaso da una malinconia di fondo e da una musica altamente suggestiva, fusione ideale di quelle correnti noise, elettronica e pop-rock che avevano attraversato il decennio. Nonostante la complessità musicale di pezzi come "Paranoid Android", il lavoro dei cinque ragazzi di Oxford risulta molto diretto, toccante, riesce a colpire al cuore l'ascoltatore.

Si comincia con "Airbag", ringraziamento alle nuove tecnologie ("An airbag saved my life"), partenza bruciante con un riff di chitarra tagliente che si dissolve nello straordinario falsetto di Yorke, perfetto interprete vocale delle ansie dell'uomo del Duemila. Poi, "Paranoid Android", magnifica suite da oltre 6 minuti che la band scelse, in piena coerenza anticommerciale, come singolo d'apertura. Attraverso il perfetto uso di effetti "speciali" che accompagnano le disperate richieste di Yorke ("Per favore, potreste smettere di fare rumore? Sto cercando di dimenticare"), la chitarra di Johnny Greenwood traccia un assolo stupendo, che segna l'accelerazione progressiva ma graduale del pezzo. Infine, come nei migliori Pink Floyd, vengono ripescate e accennate tutte le melodie che fino ad ora sono state tracciate, per l'esplosione finale.

Ancora giocata sul concetto di alienazione, dopo qualche secondo di tregua, attacca subito "Subterranean Homesick Alien", che richiama nel nome un vecchio successo di Dylan ("Subterranean Homesick Blues"). Dolce e malinconica melodia arpeggiata, con le chitarre in sottofondo che preludono in modo inequivocabile a quello che accadrà dopo. La traccia successiva, infatti, è uno dei momenti massimi del lavoro. Partendo da un semplice, lento, ossessivo accordo di chitarra acustica, "Exit Music (For A Film) racchiude in sé la melodia tristissima di Yorke, che declama una vera e propria poesia, culminante nella voce tremolante dell'ultimo verso ("we hope that you choke"). Una delle canzoni più belle e più tristi degli anni Novanta, che rivela la passione di Yorke e compagni per le sonorità desolate dei Joy Division.

Attraverso l'eterea "Let down", si giunge così a "Karma Police", forse la canzone più conosciuta dei Radiohead, secondo singolo dell'album. E' una classica melodia orecchiabile sulla quale viene descritta, ancora una volta, la depressione cronica degli alieni Radiohead ("For a minute there I lost myself"). Il pezzo contribuirà a far conoscere Yorke e soci al grande pubblico, facendo da traino a un album che possiede una continuità tra i pezzi davvero eccezionale.

"Karma Police" è lo spartiacque tra le due parti dell'album. Infatti, dopo i suggerimenti robotici di "Filter happier", critica all'utopia dell'uomo perfetto, creato ad arte dai media, si apre la sezione più sperimentale dell'album. "Electioneering", l'episodio più duro del disco nonché l'unico pezzo "politico": Yorke si scaglia contro le false promesse dei candidati in campagna elettorale, puntualmente non rispettate una volta al potere. Segue "Climbing up the walls", forse la canzone più debole di "OK Computer", un rock lento e dilaniato accompagnato dalla voce carica di effetti di Thom Yorke. Un pezzo di transizione, preludio alla dolcissima melodia xilofonica di "No Surprises", ninna-nanna "spleen" che contiene altri messaggi politici ("Facciamo crollare il governo, non sono i nostri portavoce") e invettive ecologiche.

Nel finale del disco, i Radiohead non mancano di rammentarci le difficoltà che affliggono la nostra tormentata esistenza in "Lucky" e "The Tourist". La prima, ideale continuazione di "Exit Music (For A Film)", ricama splendide armonie sulle quali la voce di Yorke, dolce e triste al tempo stesso, si conferma straordinariamente espressiva. "The tourist", invece, scritta da Johnny Greenwood, è l'ultima tappa di un fantastico viaggio nei meandri della malinconia, summa ideale dell'intero lavoro.

I Radiohead continueranno le loro peregrinazioni sperimentali nell'elettronica con i due album successivi, "Kid A" ed "Amnesiac", ma "OK Computer" resta probabilmente il loro capolavoro: un punto di partenza e di arrivo per tutta la musica rock contemporanea, un album fondamentale, senza il quale probabilmente molte band attuali sarebbero orfane di qualcosa.

(Dario Ingiusto)

Kid A (2000)

La più clamorosa svolta della storia del rock, forse… dopo il successo planetario di Ok Computer, il nuovo album dei Radiohead viene a configurarsi come una vera e propria ribellione nei confronti della macchina del consenso, quella stessa che rischiava di fagocitare l’intero gruppo e tutto il suo futuro. Sembra esagerato, lo sappiamo: ma ascoltare Ok Computer, e subito dopo Kid A, rappresenta un vero shock. Della band che produceva melodia a getto continuo, della malinconia e delle delicate ballate dallo stile indistinguibile non resta niente: o forse, sarebbe più proficuo cercare in tutto ciò che è stato prima i germi di ciò che dopo è effettivamente accaduto. La sperimentazione sonora è stata sempre una delle caratteristiche del gruppo di Oxford: ma mai nessuno si era spinto tanto lontano da creare un intero album privo di una sola linea melodica o di un solo ritornello come tradizionalmente inteso. Kid A nasce ancora dalle ansie e dalle paure di Thom Yorke, dalla sua guerra contro il mostro capitalismo- globalizzazione- clonazione che annulla la vera essenza dell’uomo: e infatti il “bambino A” del titolo altri non è che il primo bambino clonato, in un mondo che non ha più niente di umano. Ciò che i Radiohead vedono nel futuro non è roseo: i ritmi e lo stile che disegna questo album ne è specchio fedele. La struttura delle canzoni è fatta per la maggior parte di riff ripetuti innumerevoli volte, instancabilmente, ossessivamente: a tutto ciò, si affianca l’uso dell’elettronica, volto a dar voce a tutti i malesseri del gruppo. Il disco scivola via così tra puntatine nel “tradizionale” tra molte virgolette (Optimistic) e disfunzioni e malesseri elettronici che la dicono lunga sul pessimismo cosmico di Yorke e Co. (la meravigliosa overture elettronica di Everything in its right place, la struggente Treefingers). Su tutto domina un’idea di silenzio, l’ossessivo ritornare delle idee ritmiche come a disegnare l’ossessivo ritornare delle miserie che affliggono l’uomo del nostro tempo: Kid A traccia un deserto dell’anima, ed è la solitudine la sensazione più acuta quando il disco si spegne nello strano rumore frutto di manipolazioni elettroniche della ghost track, prima di cadere in un silenzio lungo minuti. Quello che resta è un’umanità allo sbando (la stupenda The National Anthem, col suo coro di fiati distorti e stravolti nel finale, come una sgangherata e triste marcia funebre), la difficoltà o a volte l’impossibilità di essere migliori (“and I might as well, I might as well” si ripete ossessivamente Yorke nella più dolorosa di tutte le tracce di questo disco, Morning Bell), l’azzeramento delle coscienze messo in atto dal mondo in cui viviamo (e qui rimandiamo ad Idioteque, un vero e proprio “inno” già fatto risuonare da Yorke anche in occasione delle proteste per il G8 di Genova, anzi un grido di dolore contro l’azzeramento, appunto, delle coscienze nella società del capitalismo e della globalizzazione). Kid A è la rivolta contro un intero sistema, il sistema giudicato vincente, nel quale tutti dovremmo restare, zitti e obbedienti: è una rivolta raccontata attraverso gli occhi e la solitudine del “bambino A”, che si fa avanti mentre arriva l’era glaciale (“Ice Age Coming”). Un lungo cammino lungo un deserto dei suoni, e dell’anima. Più doloroso e sofferto di Ok Computer, questo Kid A è un album difficile, indubbiamente, e mille miglia lontano da tutto ciò che si sente in giro: il coraggio di Yorke e soci è premiato, giacchè questo album per molti versi è il vero capolavoro dei Radiohead. Ma nessuno lo riconoscerà mai come tale, poiché ancora non siamo abituati ad ascoltare i suoni nuovi di un mondo che verrà: perché, dimenticavo di dire, forse la fine del mondo suonerà proprio così…

Brano migliore: la title track Kid A, dolorosa quanto difficile, triste quanto bella.

Amnesiac (2001)

«Dopo anni d’attesa non è arrivato nulla». Queste le prime parole di Amnesiac. Dai tempi di Ok Computer - e sono davvero passati anni - tutti aspettano qualcosa che assomigli a “Karma Police”, “Exit (Music For A Film)” o “Paranoid Android”. Ecco quel che attendevate, pare dire Yorke, mostrando la canzone d’apertura del nuovo album. Un ritmo elettronico che rimanda agli esperimenti dei Matmos apre la strada a un giro di note basse sintetiche e a due chitarre che si dividono tra canale destro e sinistro con voglia di far male. Mini-assolo rumoristi attendono la voce infine storpiata, mentre sul fondo balbettii e nastri al rovescio premono con sforzi caotici. Superato lo scoglio di un brano astruso fin dal titolo (“Packt Like Sardines In A Crushd Tin Box”) e giunti alla fine dei 44 minuti scarsi dell’album, ci si rende conto del bilanciamento perfetto degli 11 brani. I primi tre formano, assieme agli ultimi tre, le costole entro cui batte il cuore di Amnesiac, composto da cinque tra le migliori composizioni che i Radiohead abbiano mai concepito. Nelle due “costole” appaiono le devianze elettroniche (“Packt Like Sardines In A Crushd Tin Box”, “Pull Pulk Revolving Doors”, “Hunting Bears” - seppure costruita su di una chitarra - e “Like Spinning Plates”), mitigate da due scintillanti esempi di moderno pop (“Pyramid Song”) e jazz (“Life In A Glasshouse”). A differenza di Kid A, i momenti meno radioheadiani sono parti integranti del disco. Eliminandoli dalla successione con il tasto “program” del lettore CD, Amnesiac ansima, invece di procedere. Riportato il giusto ordine, la punizione sonora di “Pull Pulk Revolving Doors” (mille puntine che torturano un solco consumato) apparirà come chiusa perfetta del trittico iniziale, prima del jazz da 22° secolo di “You And Whose Army?” e dopo “Pyramid Song”. Il primo singolo presenta Thom in un falsetto vicino a Jeff Buckley, reminiscenza che torna fatale nella strofa «Sono saltato nel fiume/ Che cosa ho visto?/ Angeli dagli occhi neri che nuotavano con me». Gli archi volteggiano leggeri attorno a Yorke e agli altri, in una enorme sala da concerto in fondo al mare. Con “You And Whose Army?” i Radiohead sembrano davvero suonare sott’acqua, nelle tempie il ronzio del sangue. Un crescendo condotto dal pianoforte e dalla batteria li trasporta in superficie, dove li attende “I Might Be Wrong”. L’inizio fa pensare ai Boards Of Canada, ma entra subito un riff spezzato di chitarra e una batteria tra la Madonna di “Justify My Love” e i Soft Cell. Poi, d’un tratto, un’onda di chitarre, acustiche ed elettriche, e la voce pulita di Thom (resiste un effetto eco) trasporta tutto in alto, a livello di “Street Spirit (Fade Out)”. Tuttavia, non siamo ancora al massimo del piacere sonoro perché giunge “The Morning Bell Amnesiac”, tra organetti, campanellini, xilofoni, falsetti e suggestioni alla “Strawberry Fields Forever”. L’impatto delle parole non è lo stesso, ma l’atmosfera e i suoni hanno un potere incantatore molto simile al capolavoro dei Beatles. Più ansiosa e insistita “Dollars & Cents”, dominata da una batteria - forse influenzata dai Can - lasciata libera di creare gli spazi. “Hunting Bears” è l’episodio più interlocutorio, con il suo assolo di chitarra e sullo sfondo un organo (che abbiano ascoltato troppo i Labradford?). “Like Spinning Plates” è una mossa più decisa verso la sperimentazione, con nastri mandati all’indietro (ricordate la fine di “Rain” dei Beatles?). Sembrano mostrarci com’è il suono dalla parte inversa del CD, un mondo al di là della percezione abituale. La fine è spettacolare, uno standard jazz del futuro, da musicisti alieni caduti su New Orleans durante un funerale, in mezzo a una big band. I Radiohead continuano a domandarsi cosa c’è più in là, oltre i dischi che hanno già fatto, oltre le cose che hanno già suonato. Amnesiac è l’ennesimo viaggio nel suono di una band che non ha smarrito curiosità e talento. Dovremmo ringraziarli, per averci portato con loro anche stavolta.(Giulio Brusati)

I MIGHT BE WRONG LIVE RECORDINGS

I Might Be Wrong- Live Recordings costituisce un documento importante sull’attività del gruppo di Oxford dopo la, ormai nota, svolta elettronica. Questo live, assemblato unendo le performance di vari concerti in giro per l’europa, ruota tutto sul periodo di Kid A ed Amnesiac: e per una volta tutta l’attenzione si sposta dal contenuto ai suoni. I Might Be Wrong è un album di suoni: è un album che mostra quale sia il “metodo di lavoro” di Yorke e soci al momento della prova live. Tutte le tracce presenti nell’album diventano tappe di un lungo “work in progress”: ed è interessante vedere come i Radiohead riescano a fondere la programmazione elettronica con la musica suonata effettivamente sul palco. Così il cd si apre con una versione abbastanza fedele all’originale di The National Anthem, seguita dalla title track I Might Be Wrong, col suo riff di chitarra che risalta ancora di più dal vivo, risultando ancora più grezzo e potente. Ma non è che l’inizio. I Radiohead riprongono Morning Bell in una veste molto vicina a quella di Kid A, per poi lanciarsi in una riproposizione della, peraltro già bellissima, Like Spinning Plates, che a tratti rasenta la perfezione: ed è da notare come il pezzo venga completamente stravolto dalla band, fino a portarlo ai limiti della riconoscibilità. Subito dopo c’è spazio per l’inno Idioteque, anch’esso rivisto e corretto, oltrechè accorciato di almeno un minuto e mezzo, seguito subito da una versione sconvolgente di Everything in its right place, dove la voce di Yorke raggiunge livelli altissimi e il ritmo già decisamente sotterraneo della canzone si fa ancora più profondo, scandito anche dai battiti della mani del pubblico. Everything in its right place diviene anche terreno fertile per una sperimentazione sonora ai limiti del piacevole che porta ad un rissoso stratificarsi ed ammucchiarsi di suoni distorti fino al distendimento finale che sfocia in Dollars and Cents, ancora più bella qui (se possibile) che nella versione di studio: su tutti, il basso di Colin Greenwood e la batteria di Phil Selway, che si lanciano in un’inquietante duetto, incalzati dalla voce di Thom Yorke. In conclusione, i Radiohead regalano la vera perla: True Love Waits. È questa una canzone nel senso comune del termine, un ritorno alla tradizionale forma canzone che poco ha a che spartire con la sperimentazione elettronica che caratterizza l’intero percorso sin qui affrontato: i Radiohead imbracciano le chitarre e quello che ne vien fuori è un pezzo straziante quanto dolce, bello quanto impossibile. Con True Love Waits, il gruppo di Oxford sembra riallacciarsi a pezzi quali Fake Plastic Trees o, perché no, la stessa Karma Police: un pezzo fatto solo di chitarre e voce che sospende davvero il fragore, per un attimo almeno, e riesce a toccare da qualche parte nel profondo. Sublime.

Hail To The Thief (2003)

Ecco, é successo di nuovo. Ogni volta che Thom Yorke e Radiohead escono con un nuovo album sembrano fare il punto dello stato di salute ed evoluzione della musica pop contemporanea.

Hail to the Thief è opera complessa, più ostica di Kid A ed Amnesiac : cominci a penetrarla ed assimilarla solo dopo alcuni ascolti.

14 brani per quasi un’ora, ricchissimi come al solito di atmosfere e temi compositivi in continua progressione e dilatazione : anche con Hail to the Thief ( l’origine politica del titolo è stata abbondantemente sottolineata e teorizzata dai media) Radiohead continuano a spostare in avanti i confini estetici della song tradizionale già da tempo rivelatisi per loro estremamente angusti, almeno a partire da O.K. Computer.

Non si adagiano quindi sugli allori degli innovativi Kid A ed Amnesiac ma introducono nelle acquisizioni sperimentali di tali opere ulteriori dinamiche, soprattutto delle tensioni interne e delle progressioni ritmiche che lì mancavano.

Hail to the Thief si ricongiunge così naturalmente alle prime prove della band, quadrando il cerchio. La vibrante iniziale 2+2 = 5 è eloquente in tal senso ma anche la concitata Sit down . Stand Up . , There there, Go to Sleep, tutti esempi eclatanti di come i Radiohead riescano a sintetizzare un intero universo psichico in pochi minuti.

E così Radiohead e Thom Yorke soprattutto continuano a sagomare e scolpire in musica la loro visione negativa ( come dar loro torto !), disperata, straziante / straziata della vita e della realtà che tutti ci circonda, massificazione, stress da media

( la torre di babele della cover-foto la dice lunga a riguardo ), esaltandone con precisione sempre più chirurgica gli anfratti : non è la prima volta che affermo che il meraviglioso monocorde angosciato espressionismo vocale di Thom ( Backdrifts / We suck young blood) può suscitare solo reazioni estreme, totale compenetrazione o rigetto.

La band continua a conciliare in modo superbo splendide visioni sintetico / elettroniche ( Backdrifts / Myxomatosis / The Gloaming ), abbandoni lirico /acustici ispiratissimi ( Sail to the moon, Scatterbrain, I Will ), la ricerca della perfetta pop-song ( A Wolf at the Door / A Punchup at a Wedding ).

A saltare poi agli occhi è una ritrovata movimentata vena dark-wave che si estrinseca nelle inquietanti coordinate ritmiche quasi Bauhaus /Joy Division della cupa Where I End and You Begin, nell’accorata preghiera vampiresca We suck Young Blood prima che sorga l’alba, nel rito escatologico There there, chitarre a profusione e tensione crescente, sembra uscire da un vecchio disco di Echo & The Bunnymen.

Ecco, di ‘politico’ Hail to the Thief ha solo il titolo : è questo che ho pensato alla fine, dopo essermi perso nei conturbanti e stratificati dedali psichedelici di Myxomatosis e Go to Sleep, dopo essere rimasto invischiato nelle mutanti melodie di Scatterbrain e A Wolf at the Door, l’ispiratissima ballata finale.

Radiohead : terreni e metafisici, disperati e romantici, contorti e nudi.

(Stefano Solventi)

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mamma miaaaa e chi le leggerà tutte ste cose?! :huh:

:P Scherzo, ma io sicuramente non adesso ho troppo la testa piena di libri e libretti sull'unione europea! :(

Comunque riguardo a recensioni avevo postato una recensione sul Bodysong e una Su Ok Computer un bel pò di tempo fa...o forse no?!Boh :wacko:

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