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Recensioni e articoli su "The King of Limbs"


CutToShreds

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vorrei pisciare in testa a tutti i giornalisti.

indiscriminatamente.

tranne Fegiz

nel senso che a Fegiz vorresti fare violenza più viuleeenz? Io lo trovo di un'ignoranza cosmica.

Comunque sono d'accordo sul recensore qui in alto - le prime due righe sono da arresto per supponenza e volontà di "parlare difficile e mostrare cultura".

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  • 2 weeks later...

Tornano i Radiohead con l'ennesimo viaggio di sola andata...

(di Federico Zamboni)

Dal Secolo d'Italia del 10 aprile 2011

Il progresso non è affatto lineare. E non è detto neppure che porti ad avanzare davvero, e men che meno ad avvicinarsi a una meta che valga la pena di raggiungere. Il superamento delle forme precedenti, per lo più, non è un vero superamento ma un allontanamento: una digressione; una regressione. La traiettoria standard è uno zigzag di sbandate successive, tra il muraglione delle prescrizioni collettive e il baratro degli eccessi individuali. A volte, o spesso, lo zigzag diventa un testacoda. E il testacoda un incidente. Ti schiacci contro il muraglione. Precipiti nel baratro. Hai preferenze?

I Radiohead sono altrove. Su altre strade. Su altre traiettorie. Su altre piste: quelle appena abbozzate che solcano la sabbia di deserti mutevoli e antichissimi, o quelle tracciate con scientifica precisione sull'asfalto di un aeroporto ipertecnologico. O di una base spaziale. Si direbbe che ci siano arrivati di slancio, senza neanche doversi sforzare di tenersi lontani dalle cattive abitudini altrui. Come sottolineava Picasso, «Je ne cherche pas. Je trouve». Come osserva oggi Alessandro Raina, degli Amor Fou, «quando penso ai Radiohead e a quello che significano per la musica contemporanea, parafrasando Battisti, penso a Picasso, a quello che ha comportato la sua evoluzione dirompente, la provocazione degli esperimenti che non erano tali ma rappresentavano opere consapevoli, divenute poi documenti, fino a concretizzarsi in una scuola».

La differenza è determinante. Un po' come è avvenuto a suo tempo con i Pink Floyd - che nel ricorrere all'elettronica non hanno mai dato l'impressione di procedere per tentativi, mostrando invece di sapere benissimo ciò che stavano facendo e quanto fosse assurdo continuare a distinguere tra canzone e suite, tra musica cantata e musica strumentale - i Radiohead non provano a creare qualcosa di insolito ma lo realizzano. E fa quasi sorridere, che basti questo a scombussolare tanta gente, anche tra gli addetti ai lavori. Le reazioni di sconcerto che la band di Thom Yorke suscita in molte persone, evidentemente incapaci di affrancarsi dalle loro aspettative, hanno un che di comico: loro, senza nemmeno saperlo, si aspettano una melodia accattivante, un riff a presa rapida, un ritornello che per l'appunto ritorni più volte, come un'indicazione stradale che attesta-conferma-ribadisce che la direzione di marcia è quella giusta. O, piuttosto, quella immaginata. E invece nei Radiohead, anche in uno dei loro brani più noti come Paranoid Android, di queste certezze non c'è traccia. Ma non perché è la forma a essere diversa dal solito. La differenza (la divergenza) è nell'approccio. Negli obiettivi. Nella sostanza.

The King of Limbs, il nuovo album che il 18 febbraio è stato pubblicato solo on-line e che è approdato nei negozi a fine marzo, rende tutto questo ancora più esplicito. I Radiohead non appartengono al mondo del pop. Non più di quanto vi sia appartenuto Stanley Kubrick nel campo del cinema o vi appartenga Chuck Palahniuk in quello della narrativa. Il loro orizzonte non è l'intrattenimento. Il loro scopo non è il successo commerciale. Il loro destinatario non è il pubblico, inteso come massa omogenea e intercambiabile. Il fatto che aspirino ad avere un seguito ampio, o amplissimo, resta un desiderio collaterale, come è giusto che sia. Si è quello che si è, e l'arte non è l'equivalente interiore della chirurgia estetica. Sono le persone frivole, che ambiscono a sedurre. Le altre, con almeno un pizzico di profondità, o anche solo di autenticità, anelano all'amore. Sperando che sia davvero quello che sembra: un lampo di comprensione che non si spegnerà troppo in fretta, adesso che si è acceso.

Qualcuno è infastidito da un'autonomia così palese e così radicata. Oppure, secondo i detrattori, così compiaciuta e insistita, fino all'esibizionismo. Qualcuno precipita nel ridicolo, nell'ansia di disprezzare pubblicamente ciò che non comprende. Liam Gallagher degli Oasis, ad esempio. Uno che non esita a dire: «Non so di che cosa parlino le mie canzoni. Non sono bravo con le parole. Dico giusto la prima cosa che mi passa per la testa», ma che in mancanza di meglio prende spunto dal titolo di questo The King of Limbs, ispirato a una quercia millenaria della Wiltshire's Savernake Forest (nell'Inghilterra sud-occidentale, non molto lontano da Stonehenge), e sbraita come segue: «Mi sono detto: cosa? Scrivere una canzone su un cazzo di albero? Un albero di mille anni? Che si fottano!». E il "sottomarino giallo" dei Beatles? E il "Joshua Tree" degli U2? E la "Champagne Supernova" degli stessi Oasis?

Qualcun altro, su un registro di ben diversa serietà, parte dalla reazione istintiva e la riversa in una riflessione meditata. O persino problematica. Sull'ultimo numero del mensile Il Mucchio, che a quasi 34 anni dalla nascita conserva la libertà, e spesso l'intensità, degli esordi, un ampio servizio a più voci si interroga sui Radiohead, presentati in copertina come «I più furbi del reame?». Scrive Federico Guglielmi: «Non ho problemi ad ammetterlo, li detesto: non le loro canzoni né i loro dischi, ma proprio il loro modo di porsi. Aborro che non abbiano mai rivelato i numeri dell'operazione In Rainbows (l'album del 2007 che venne divulgato via Internet ad offerta libera, ivi inclusa la gratuità, Ndr), odio il loro voler sovvertire le regole di un music-biz che avrebbe bisogno di punti fermi e non di ulteriore caos. Più semplicità, più normalità, più chiarezza e meno masturbazioni di marketing: ci vorrebbe così tanto?».

L'avversione per i metodi, in realtà, non impedisce sempre a Guglielmi di recensire positivamente l'album («un ulteriore attestato di libertà, coraggio e indipendenza dai cliché. Emozioni garantite - si legge - unico rischio quello di patire più del previsto il ritorno nel mondo reale. Vale la pena di correrlo») ma resta indicativa di un disagio su cui dovrebbe interrogarsi assai di più chi lo prova, che non chi lo suscita. Disorientare è un merito, quando non è solo un trucco. Disorientare è la premessa di un possibile nuovo orientamento. Come spegnere le luci artificiali della città e far sprofondare tutti nel buio. Nella speranza che i loro occhi tornino a percepire, e via via a capire, la luminosità remota e incontaminata delle stelle.

Federico Zamboni

Che dirvi? A me è piaciuta molto questa recensione

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Tornano i Radiohead con l'ennesimo viaggio di sola andata...

(di Federico Zamboni)

Dal Secolo d'Italia del 10 aprile 2011

Il progresso non è affatto lineare. E non è detto neppure che porti ad avanzare davvero, e men che meno ad avvicinarsi a una meta che valga la pena di raggiungere. Il superamento delle forme precedenti, per lo più, non è un vero superamento ma un allontanamento: una digressione; una regressione. La traiettoria standard è uno zigzag di sbandate successive, tra il muraglione delle prescrizioni collettive e il baratro degli eccessi individuali. A volte, o spesso, lo zigzag diventa un testacoda. E il testacoda un incidente. Ti schiacci contro il muraglione. Precipiti nel baratro. Hai preferenze?

I Radiohead sono altrove. Su altre strade. Su altre traiettorie. Su altre piste: quelle appena abbozzate che solcano la sabbia di deserti mutevoli e antichissimi, o quelle tracciate con scientifica precisione sull'asfalto di un aeroporto ipertecnologico. O di una base spaziale. Si direbbe che ci siano arrivati di slancio, senza neanche doversi sforzare di tenersi lontani dalle cattive abitudini altrui. Come sottolineava Picasso, «Je ne cherche pas. Je trouve». Come osserva oggi Alessandro Raina, degli Amor Fou, «quando penso ai Radiohead e a quello che significano per la musica contemporanea, parafrasando Battisti, penso a Picasso, a quello che ha comportato la sua evoluzione dirompente, la provocazione degli esperimenti che non erano tali ma rappresentavano opere consapevoli, divenute poi documenti, fino a concretizzarsi in una scuola».

La differenza è determinante. Un po' come è avvenuto a suo tempo con i Pink Floyd - che nel ricorrere all'elettronica non hanno mai dato l'impressione di procedere per tentativi, mostrando invece di sapere benissimo ciò che stavano facendo e quanto fosse assurdo continuare a distinguere tra canzone e suite, tra musica cantata e musica strumentale - i Radiohead non provano a creare qualcosa di insolito ma lo realizzano. E fa quasi sorridere, che basti questo a scombussolare tanta gente, anche tra gli addetti ai lavori. Le reazioni di sconcerto che la band di Thom Yorke suscita in molte persone, evidentemente incapaci di affrancarsi dalle loro aspettative, hanno un che di comico: loro, senza nemmeno saperlo, si aspettano una melodia accattivante, un riff a presa rapida, un ritornello che per l'appunto ritorni più volte, come un'indicazione stradale che attesta-conferma-ribadisce che la direzione di marcia è quella giusta. O, piuttosto, quella immaginata. E invece nei Radiohead, anche in uno dei loro brani più noti come Paranoid Android, di queste certezze non c'è traccia. Ma non perché è la forma a essere diversa dal solito. La differenza (la divergenza) è nell'approccio. Negli obiettivi. Nella sostanza.

The King of Limbs, il nuovo album che il 18 febbraio è stato pubblicato solo on-line e che è approdato nei negozi a fine marzo, rende tutto questo ancora più esplicito. I Radiohead non appartengono al mondo del pop. Non più di quanto vi sia appartenuto Stanley Kubrick nel campo del cinema o vi appartenga Chuck Palahniuk in quello della narrativa. Il loro orizzonte non è l'intrattenimento. Il loro scopo non è il successo commerciale. Il loro destinatario non è il pubblico, inteso come massa omogenea e intercambiabile. Il fatto che aspirino ad avere un seguito ampio, o amplissimo, resta un desiderio collaterale, come è giusto che sia. Si è quello che si è, e l'arte non è l'equivalente interiore della chirurgia estetica. Sono le persone frivole, che ambiscono a sedurre. Le altre, con almeno un pizzico di profondità, o anche solo di autenticità, anelano all'amore. Sperando che sia davvero quello che sembra: un lampo di comprensione che non si spegnerà troppo in fretta, adesso che si è acceso.

Qualcuno è infastidito da un'autonomia così palese e così radicata. Oppure, secondo i detrattori, così compiaciuta e insistita, fino all'esibizionismo. Qualcuno precipita nel ridicolo, nell'ansia di disprezzare pubblicamente ciò che non comprende. Liam Gallagher degli Oasis, ad esempio. Uno che non esita a dire: «Non so di che cosa parlino le mie canzoni. Non sono bravo con le parole. Dico giusto la prima cosa che mi passa per la testa», ma che in mancanza di meglio prende spunto dal titolo di questo The King of Limbs, ispirato a una quercia millenaria della Wiltshire's Savernake Forest (nell'Inghilterra sud-occidentale, non molto lontano da Stonehenge), e sbraita come segue: «Mi sono detto: cosa? Scrivere una canzone su un cazzo di albero? Un albero di mille anni? Che si fottano!». E il "sottomarino giallo" dei Beatles? E il "Joshua Tree" degli U2? E la "Champagne Supernova" degli stessi Oasis?

Qualcun altro, su un registro di ben diversa serietà, parte dalla reazione istintiva e la riversa in una riflessione meditata. O persino problematica. Sull'ultimo numero del mensile Il Mucchio, che a quasi 34 anni dalla nascita conserva la libertà, e spesso l'intensità, degli esordi, un ampio servizio a più voci si interroga sui Radiohead, presentati in copertina come «I più furbi del reame?». Scrive Federico Guglielmi: «Non ho problemi ad ammetterlo, li detesto: non le loro canzoni né i loro dischi, ma proprio il loro modo di porsi. Aborro che non abbiano mai rivelato i numeri dell'operazione In Rainbows (l'album del 2007 che venne divulgato via Internet ad offerta libera, ivi inclusa la gratuità, Ndr), odio il loro voler sovvertire le regole di un music-biz che avrebbe bisogno di punti fermi e non di ulteriore caos. Più semplicità, più normalità, più chiarezza e meno masturbazioni di marketing: ci vorrebbe così tanto?».

L'avversione per i metodi, in realtà, non impedisce sempre a Guglielmi di recensire positivamente l'album («un ulteriore attestato di libertà, coraggio e indipendenza dai cliché. Emozioni garantite - si legge - unico rischio quello di patire più del previsto il ritorno nel mondo reale. Vale la pena di correrlo») ma resta indicativa di un disagio su cui dovrebbe interrogarsi assai di più chi lo prova, che non chi lo suscita. Disorientare è un merito, quando non è solo un trucco. Disorientare è la premessa di un possibile nuovo orientamento. Come spegnere le luci artificiali della città e far sprofondare tutti nel buio. Nella speranza che i loro occhi tornino a percepire, e via via a capire, la luminosità remota e incontaminata delle stelle.

Federico Zamboni

Che dirvi? A me è piaciuta molto questa recensione

Finalmente una recensione degna dell'argomento trattato. :clapclap:

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Definirla recensione però mi pare non proprio corretto, dato che si sofferma di più su riflessioni ad ampio respiro che sul disco in sè

sì, è vero

forse è per questo che mi è piaciuta tanto, e forse anche per Lacatus è così. Il disco non mi ha convinta, ma sono sicura che non sia un passo indietro. Semplicemente, non è nelle mie corde. Non è detto poi che non lo diventi in futuro, io non perdo la speranza :)

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L'equazione finale fra i Radiohead e Scorsese mi ha fatto rabbrividire wacko.gif

Con MENO COMUNICATIVO avrei da ridire, con PIU FREDDO, forse sono d'accordo.

Non c'è quasi nulla di pop,
invece non lo condivido affatto...
lo stesso singolo, Lotus Flower, verrà ricordato più che altro per le notevoli doti ballerine esibite da Yorke nel bel video.

Quel video ha davvero ucciso tutto e secondo me manco se l'aspettavano 26.gif

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scaruffo gode e stronca! (salva feral e little by little [tra l'altro sente sitar in little by little... eh?!)

stronca soprattutto il trittico codex-giveup-separator.

More cliched than ever, The King of Limbs (2011) is mostly a rhythmic affair, with the beats prevailing over the rest. Bloom is brainy for the sake of being brainy: convoluted rhythm, angst-filled droning vocals, a bit of minimalist keyboards and sleepy trumpet wails. Morning Mr Magpie puts the project into a different light: this is mood music made out of pretentious ideas. The single Lotus Flower ventures into disco territory but it ends up sounding like a bad version of synth-pop of the 1980s. But that's still better than no rhythm at all: the slow slow slow piano ballad Codex is simply devoid of real music: it's just somebody strumming a piano and crooning a trite melody. And Give Up The Ghost it's not even that: just a hippie-style litany repeated over and over again. The ambition of these songs is often hilarious. Yorke's insipid and narcotized singing certainly does not help rescue the rest.

It is not completely surprising that the results improve dramatically when Yorke does not sing. The claustrophobic tension of Feral is driven by the contrast between the almost silent soundscape and the frantic twitching of the beats (and the ghostly Middle-Eastern moves). Yorke merely moans in Little By Little, one of Radiohead's most touching pop moments, sculpted by hazy guitar and sitar tones.

Radiohead's career has been one long bluff and it gets harder and harder for them to disguise it. The best thing about this album is that it's concise. Little By Little and Feral would have made a great EP.

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